Sul
tema delle scuole in montagna e dell'esempio costituito
da l'escolo de Sancto Lucìo
de Coumboscuro vedi
anche
Scarpe
grosse cervello fino
dell'amico
Giancarlo Maculotti (dirigente scolastico e Autore del libro “Lettera dalla scuola tradita”,
Armando, Roma 2008)
Tratto
da: da Uncem notizie – N. 2 Febbraio 2009
Periodico mensile Dell’Unione Nazionale Comuni Comunita’ Enti Montani
per gentile concessione dell'autore
L'
escolo de Sancto Lucio
L'
escolo de Sancto Lucio (materna)
Francesco
De Sancis
Graziadio
Isaia Ascoli
L'
escolo de Sancto Lucio
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(05.01.10) L' esperienza di una pluriclasse che
fa riflettere sul centralismo scolastico, sull' italofonia quale registro
unico, sulle gerarchie di valori che premiano le 'grandi opere' e lasciano
chiudere le scuole
Una 'scuoletta' alpina da mezzo secolo rappresenta un riferimento
culturale internazionale
L'escolo de Sancto Lucìo
de Coumboscuro (Valgrana, Cn) da cinquant'anni è un laboratorio di
plurilinguismo, di sperimentazione didattica e un modello di relazioni
interculturali. Sulla base della valorizzazione della propria specifica
identità (nella fattispecie quelle provenzale alpina) e non della rinuncia ad
essa come vorrebbe imporre una certa cultura politically correct subalterna al peggior mondialismo.
La storia de l'escolo rappresenta qualcosa di esemplare.
Intorno a questa esperienza pedagogica, per certi versi parallela a quella di
Barbiana, si è sviluppato - molto prima dei recenti revival etnici
- un movimento di riscoperta e di difesa dell'identità culturale provenzale
alpina nelle valli del Piemonte. L' escolo de Sancto Lucio è stato
protagonista dello sviluppo di attività teatrali e di relazioni in
campo scolastico e culturale con comunità alpine (ci piace ricordare
quella particolarmente importante con Poschiavo). Negli anni l'escolo ha
sviluppato anche innumerevoli relazioni con istituzioni culturali in
varie parti del mondo (tra cui una ventina di università) e ha redatto
numerose pubblicazioni. Ora, protagonista la nuova scuola per
adulti, è impegnata alla preparazione di un grande
Dizionario provenzale.
Non più scuola statale ma pur sempre scuola pubblica
Con le recenti leggi, che hanno introdotto parametri minimi per
la formazione delle classi e delle pluriclassi, e con il passaggio di alcuni
alunni alle medie non sussistevano più le condizioni per mantenere in vita il
plesso scolastico di Coumoscuro. La proposta della Regione Piemonte
(Assessorato alla montagna) di sviluppare, a titolo sperimentale, un progetto
di teleinsegnamento in collaborazione con il Politecnico di Torino è stata
bocciatao all’unanimità dal Collegio Docenti dell'Istituto comprensivo di
Caraglio (grosso centro sito in pianura all'imbocco della Val Grana). Di
fronte a questa situazione i genitori degli alunni si sono riuniti in
Associazione ed hanno istituito, con la collaborazione della Regione Piemonte
Assessorato alla Montagna, l' Escolo De Sancto Lucio de Coumboscuro - La
Scuola in Provenzale dove, parallelamente alle materie curriculari, si
insegna la lingua e la cultura provenzale. In questo modo la scuola non più
statale ha mantenuto un riconoscimento ufficiale ed istituzionale. Un
precedente di grande significato che, sia pure in un contesto particolarissimo
e di sperimentazione, incrina l'equivalenza scuola pubblica = scuola statale
affermatosi in Italia un secolo fa, prima con la Legge Daneo Credaro
del 4 giugno 1911, n. 407, poi, definitivamente, con
la riforma Gentile (Giovanni Gentile era, non va dimenticato, il teorico dello 'stato etico' che
pensava che 'Nella scuola lo Stato realizza sé stesso…'). Un programma che
almeno ha il vantaggio della chiarezza.
Siamo in un paese che si proclama in fase di transizione dal
centralismo al (semi)federalismo ma in molti campi, e quello della scuola è uno
di questi, questo processo non si intravede ancora per quanto il
centralismo scolastico sia stato attenuato dall'affermazione dell'autonomia
organizzativa e didattica degli istituti.
Le spinte per la chiusura delle 'scuolette' si sono fatte più
forti
Al di là degli ultimi sviluppi l'esperienza della pluriclasse di
Sancto Lucio ha molto da insegnare. Innanzitutto dimostra come una
scuola possa essere vitale e favorire l'apertura al mondo dei propri
alunni indipendentemente dai numeri.
Gli ultimi provvedimenti in materia di parametri per la
costituzione di plessi scolastici e di classi, entrati in vigore nel 2009,
hanno ulteriormente abbassato gli standard. E' vero che è facoltà dei
responsabili scolastici locali derogare, in montagna, alla regola del numero
minimo di 50 alunni per la formazione di un plesso, ma - nei villaggi alpini -
la questione vitale è la stessa formazione delle classi e delle
pluriclassi. Anche se in montagna il numero minimo di alunni è di 12 (più basso
di quello di 15 stabilito in via ordinaria) esso è stato pur sempre elevato
rispetto a quello di 10 già in vigore prima dell'ultima riforma. Per quanto
riguarda le pluriclassi il numero minimo di alunni è stato innalzato da 6 a 8.
La prima domanda che ci si pone è: perché una questione come il numero
minimo di alunni non deve essere lasciata alla competenza degli enti locali?
Innanzitutto le realtà demografiche e insediative, come è ben noto, sono molto
diverse e poi perché una comunità locale non può essere libera di dedicare le
proprie risorse al mantenimento di una scuola se questa - al di là dei numeri -
è riconosciuta come un elemento vitale per la comunità stessa? E' vero che in
certi contesti il mantenimento a tutti i costi di una scuoletta può tradursi in
una situazione asfittica, con conseguenze negative per gli alunni e senza riscontri
positivi per la comunità ma, in certe condizioni, ciò può essere evitato e
persino ribaltato. A Sancto Lucio arrivano con programmi di scambio
alunni da scuole francesi, piemontesi, lombarde, svizzere e gli alunni del'escolo
frequentano regolarmente classi francesi e si recano spesso presso le altre
realtà di con le quali sono in atto programmi di scambio. L'apertura al
plurilinguismo, alle altre culture e realtà è senz'altro maggiore che nel caso
degli alunni dei villaggi di montagna trasportati con gli scuola-bus e inseriti
nelle classi dei centri di fondovalle. Qui lo stile di vita si è
omologato a quello simil-urbano e gli alunni di montagna, che sono comunque
inseriti in un contesto famigliare che mantiene rapporti con la realtà rurale e la
cultura alpina, rischiano di essere etichettati come 'montagnini'. Ben diverso
sarebbe se, sulla base dello sviluppo di adeguati programmi, in grado di
portarli ad apprezzare la 'diversità' della montagna, gli alunni 'del
piano' e delle città frequentassero per alcuni periodi le
'scuolette' alpine.
Le scuole si chiudono
anche perché le comunità non credono più in sé stesse
Al di là dei parametri imposti dalle norme ministeriali è
doveroso ricordare come la chiusura delle scuole di montagna avviene anche per
impulsi 'interni' alle comunità che, in larga misura, interagiscono
negativamente con le scelte 'istituzionali'. Il passaggio alle pluriclassi, in
mancanza del numero minimo di 12 alunni prescritto, comporta il timore da parte
dei genitori di una penalizzazione dei propri figli in termini di standard
di apprendimento. Questo è uno dei motivi per i quali i genitori, anche
sobbarcandosi l'onere del trasporto, a volte 'sottraggono' i figli alle scuole
locali ancora aperte e li portano a frequentare le scuole dei centri maggiori.
Questo 'esodo scolastico' si verifica anche dove sono ancora attive le classi
da parte di alunni i cui genitori, pensando alla scuola secondaria e
all'università, pensano che la formazione offerta dalla scuola locale
possa rappresentare un handicap per il curriculum successivo dei
figli che spesso li porterà a studiare e poi a lavorare lontano.
Un fenomeno che interessa spesso famiglie di recente
insediamento e che costringere a mettere in guardia contro i facili entusiasmi
di un certo 'neoruralismo' che non risolve, se non in parte, i problemi di
sopravvivenza delle piccole comunità alpine dal momento che la continuità
dell'insediamento deve misurarsi con il problema della 'seconda
generazione' . A questi fenomeni di 'esodo scolastico' corrisponde, in
alcuni casi, anche il trasferimento dell'intera famiglia che, almeno per il
periodo invernale quando i collegamenti diventano difficili, preferisce
scendere nelle località a valle dove sono presenti gli istituti
scolastici. Un trasferimento che da stagionale rischia poi di
divenire definitivo. Sono tutti fenomeni che mettono in evidenza come la
scuola possa rappresentare un elemento di rafforzamento della comunità, della sua
coesione, della sua identità, ma anche di disgregazione quando si
affermano la scelta, individuale o collettiva, di far frequentare ai ragazzi le
scuole - anche quella primaria - in località più grandi. Una comunità senza la
scuola primaria è una comunità dimezzata, una comunità destinata a morire.
Identità e lingua
L'esperienza di Sancto Lucìo è quella di un recupero di
una identità basata in larga misura sulla lingua. Il riconoscimento per le
lingue minoritarie, sia pure previsto dalla Costituzione della Repubblica
Italiana, è arrivato solo con la legge 482/1999 che detta 'Norme in
materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche'. Essa riconosce anche
quelle lingue che non erano tutelate dai trattati internazionali. Oltre a
tedesco, francese e sloveno (lingue ufficiali e nazionali di paesi confinanti)
e al ladino dolomitico, che già godeva di tutela in Trentino-Alto Adige, sono
state riconosciute anche il Friulano, l'Occitano, il Sardo. ecc. per un
numero complessivo di 12 realtà. Un passo avanti certamente. Restano, però, le difficoltà
di mantenere aperte le scuole nelle zone di montagna dove queste lingue sono
spesso parlate e questo limita la portata della loro tutela. E' previsto che dove
esistano minoranze linguistiche il numero minimo di alunni di un istituto
scolastico sia di soli 300 invece che 500. Ma le difficoltà sono spesso altre
e la natura frammentata degli insediamenti e la presenza non omogenea dei
parlanti limita la facoltà dei genitori di far impartire ai figli
parte dell'insegnamento curricolare nella lingua di minoranza come previsto
dalla legge. In ogni caso restano fuori dalle previsioni della legge lingue
come il Piemontese (riconosciuta dal Consiglio d'Europa e dall'Unesco), il Lombardo
, il Veneto e lo stesso Provenzale (riconosciute dall'Unesco). L'impostazione storica della
scuola italiana improntata al rigido monolinguismo e alla repressione di ogni
altra espressione linguistica continua a pesare. Giulio Ferroni, critico
militante e storico della letteratura, recentemente insignito del premio De
Sanctis (se lo merita di certo!) ha così commentato, qualche mese fa,
le proposte tendenti a introdurre i 'dialetti' nella scuola:
'[...]uscite pericolose che ci fanno tornare al Medioevo e rischiano
di proiettarci verso un modello jugoslavo: pensate a che cosa succederebbe se i
nostri giovani si mettessero a studiare il dialetto (e quale dialetto poi?) in
una situazione in cui l' italiano nelle scuole è già molto sacrificato e le
lingue straniere si studiano male. Rimarrebbero tagliati fuori da qualunque
contesto internazionale'.
Giovani 'tagliati fuori' e incitati ad intraprendere
guerre civili e a scannarsi, queste le conseguenze apocalittiche del
'dialetto'. Ma dai! Per fortuna sono il vertice dell'accademia. Una
rozzezza di argomentazioni degna della migliore (si fa per dire) tradizione
degli intellettuali nazionalisti e centralisti. Da De Sanctis in poi, per
l'appunto. Già, De Sanctis. L'osannato (ancor oggi, dai parrucconi alla Ferroni) critico letterario
'militante', l'intellettuale organico dell'Italia 'liberale'
post-risorgimentale anti-cattolica e anti-popolare, che ha
rappresentato anche l'ispiratore della gramsciana teoria e prassi della
'egemonia culturale'. Fu anche ministro agli albori della 'nuova Italia'
e a proposito ci piace riportare come viene 'trattato' il
nostro nella presentazione del 'programma' de l'escolo de
Sancto Lucio. A proposito del 'peccato originale' della scuola italiana si
chiarisce che:
Tutto è cominciato con la decisione
di Francesco De Sanctis, ministro della cultura nel 1861, l’anno
dell’unificazione italiana, di non tener alcun conto delle accorate perorazioni
di Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della glottologia, della dialettologia
e dell’Archivio Glottologico Italiano, e di bandire per sempre – anche a
sferzate, se necessario – i “dialetti” dalle scuole del Regno Unito. Se a tale
energica, fatale decisione si assommano l’horror dialecti, cioè il secolare disdegno degli
intellettuali italiani per tutto ciò che è vox populi, l’opposizione della Chiesa a un
qualsiasi ruolo dei dialetti (e delle ex lingue di stato, come il veneziano e
il sabaudo) nella liturgia e lo scambio interregionale di insegnanti totalmente
digiuni delle rispettive lingue locali, ci si spiega meglio l’entità e la
repentinità della liquidazione delle lingue regionali in Italia: quelle stesse
che Ascoli aveva definito – con gran più conoscenza di causa – “il più ricco
patrimonio linguistico” di tutta l’Europa. (http://www.escolodesanctoluciodecoumboscuro.org/content/view/10/14/)
Ascoli era uno scienziato tra i più brillanti in Europa in
materia di glottologia, aveva ben presenti i concetti di 'substrato' e 'superstrato'
linguistico quali determinanti della differenziazione. De Sanctis era un
ideologo convinto che, date le fragilissime basi dello stato unitario, non si
dovesse operare nessuna concessione alla diversità culturale pena la
disgregazione del nuovo stato. Era l'applicazione in campo scolastico e
culturale di quanto sul piano politico e amministrativo veniva fatto con le
leggi che imponevano in tutto il Regno la più assoluta uniformità di
ordinamenti. Tanto più il paese reale era diverso, tanto più quello legale
doveva essere monolitico. L'ideologia desanctisiana poggiava su una concezione
mitica (da letterato) di una primordiale unità linguistica, incarnata dal
latino e successivamente da un volgare comune, successivamente venuta meno per
un fenomeno di 'corruzione' nel corso dei 'secoli bui'. Per De Sanctis ogni
differenziazione dialettale è espressione di regressione sociale, di
imbarbarimento, di scadimento plebeo. La lingua unica è espressione di civiltà,
il dialetto è stigmatizzato come espressione di inferiorità sociale. Filtri e
paraocchi etno-linguistici al posto degli strumenti dell'analisi storica e
glottologica. Vero intellettuale italiano.
La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la
ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da
una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto,
dall'altra, ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita,
lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti, cercarono forme di dire più
gentili, un linguaggio comune, dove appare ancora questo o quel dialetto, ma ci
si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi
più in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.
Ma non era l'Ancient règime a disprezzare la plebaglia?
In realtà sappiamo da un pezzo che l'Ancient règime era molto più
democratico dei 'liberali' che hanno fatto l'Italia. In ogni caso quanto
abbia pesato questa ideologia sino ad oggi ognun lo può constare da sé
facilmente. Nella presentazione dell' escolo si dice a proposito che
La spinta verso il monolinguismo è
stata così energica che ancora oggi i genitori proibiscono con veemenza a nonni
ed anziani di parlare la lingua regionale ai nipotini per timore di
“contaminazioni” che impediscano ai loro rampolli di apprendere correttamente
l’ormai corrotta lingua nazionale. Corrotta, tra l’altro, da quella stessa,
agognata, mitizzata lingua inglese, che i genitori tanto vorrebbero che i loro
figli imparassero a scapito – se necessario – della lingua nazionale.
In realtà l'apprendimento del
'dialetto' non solo non ostacola ma favorisce l'apprendimento plurilinguistico.
In questo senso l'esperienza di Sancto Lucìo corrisponde anche a quella
di realtà come la Svizzera, cove il plurilinguismo è d'obbligo. Sempre dalla
presentazione de l'escolo leggiamo che:
Che una lingua locale – erroneamente
chiamata 'dialetto' (che, tanto nell’etimologia della parola greca, quando
nella realtà dei fatti, vuol dire ben altra cosa) contenga qualcosa come dieci
volte il lessico corrente di un adolescente oggi, che l’apprendimento in primis di un 'dialetto' comporti una ginnastica
mentale e una disposizione psicolinguistica che predisponga idealmente
all’apprendimento di altre lingue, che i bambini che hanno imparato dapprima
una piccola lingua sono molto più agili, linguisticamente, dei loro 'epurati' figli,
non sembra preoccuparli più di tanto: più parole inglesi radio, televisione,
giornali, l’internet, l’insegna del bar dell’angolo, il governo italiano stesso
mettono nello slavato italiano nazionale, meglio è: sono convinti che così il
passo per imparare l’inglese, 'la vera lingua', sarà molto più breve.
L'italiano ha bisogno delle lingue
locali (lo sa o no?)
I politici e intellettuali
'italianisti' che inorridiscono di fronte all'ingresso dalla porta
principale dei 'dialetti' nella scuola italiana fanno finta di non rendersi
conto (ma probabilmente lo sanno benissimo) che i 'dialetti' contribuiscono
tutt'oggi, mediante prestiti, calchi e tutta una serie di scambi a mantenere
vivo l'italiano. Se vogliono tenere fuori dalla scuola i 'dialetti' è solo per
ragioni politiche. Il serbatoio dei 'dialetti' e la loro mediazione
conferiscono all'italiano quella vitalità che deriva dal contatto con la vita
quotidiana nella sua realtà differenziata (e che hai lui non è mai
riuscito ad acquisire appieno). Il 'patrimonio linguistico' ricco e vario cui
faceva riferimento Ascoli non è esaurito. Se l'italiano si unificasse in un sol
colpo e la varietà 'dialettale' venisse improvvisamente meno esso soccomberebbe
presto all'itanglese, sarebbe destinato a divenire un dialetto della lingua
mondiale, la 'vera lingua' quella del business 'che fa guadagnare il
pane'. Una eventualità non tanto remota (quella della riduzione
dell'italiano a dialetto o lingua morta). Al di fuori di un quadro
plurilinguistico, al di fuori del radicamento dell'italiano quale 'lingua degli
affetti dell'identità' esso rischia di diventare la 'lingua della plebe'
subendo quella discriminazione che a suo tempo ha inteso imporre al 'dialetto'.
Per chi non fa questioni di 'lingua del cuore', una lingua del business
vale un altra ed è pronto a dare un calcio all'italiano. La cultura del monolinguismo così a lungo seminata dalla scuola
italiana rischia di essere un boomerang. La convivenza e l'interscambio con il
'dialetto' giova quindi all'italiano, e gioverebbe alla sua salute e futuro
venire finalmente a patti con essi. Tanto più che i 'dialetti' non sono
moribondi come qualcuno preconizzava non molti anni orsono (fregandosi le
mani).
La reazione alla globalizzazione,
infatti, si è tradotta in un recupero di vitalità del 'dialetto' come dimostra
l'aumento della percentuale dei parlanti (o almeno proclamatisi tali) tra
le giovani generazioni nelle recenti rilevazioni Istat. Nel Veneto, poi, dove
il rilancio della lingua locale è più forte sia assiste persino al fenomeno di
neo-parlanti (provenienti di altre regioni e paesi) che imparano il Veneto per
non perdere occasioni di socializzazione in un contesto dove l'uso della lingua
veneta è molto frequente anche tra estranei e nell'ambito di rapporti formali
(un fenomeno non assente altrove). Anche in Lombardia, specie nell'area
pedemontana e alpina, non solo il Lombardo 'tiene' ma si rafforza tra
i giovani quale espressione di cultura popolare e giovanile
ribaltando la percezione generale nei suoi confronti delle vecchie generazioni
(si veda il fenomeno Van de Sfroos). Tendenze simili si riscontrano anche nelle
altre regioni come indicano diverse ricerche. Molto spesso, però, la lingua
locale assume nei giovani il significato di un semplice modo di distinguersi
dagli adulti e l'uso ha per lo più funzioni ludico-espressive (Flavia
Gramellini, Ianua. Revista Philologica Romanica Vol. 8 (2008), pp. 181–201
http://www.romaniaminor.net/ianua/Ianua08/10.pdf).
Tanto ritrovato entusiasmo giovanile
andrebbe assecondato proprio
dall'azione scolastica finalizzata all'acquisizione di una vera competenza
linguistica. Ulteriori segnali di vitalità
dei 'dialetti' sono comunque legati alla diffusione dell'uso scritto
(facilitata anche dal web che mette a disposizione risorse in precedenza
difficilmente disponibili), dall'uso in ambito letterario con significati
diversi rispetto al vecchio vernacolarismo, dall'uso in contesti formali un
tempo 'scandalosi'.
[...] se per molti il
dialetto resta la lingua familiare e degli affetti, esso può, ancora oggi,
nell’epoca della globalizzazione, rappresentare uno strumento di integrazione e
riconoscimento, ma in certe situazioni, anche più formali, può costituire un
valido supporto alla comunicazione inconcorrenza con l’italiano (F.
Gramellini, Ivi).
Il recupero della
dimensione rurale, la montagna viva, presuppongono la valorizzazione
delle lingue locali
Se si smettesse di concepire l'uso delle lingue locali nella
scuola come una 'minaccia' all'italiano e si capisse invece quali vantaggi
potrebbero derivare dal plurilinguismo certe 'barricate' cadrebbero. Non
cadranno facilmente perché la supremazia dell'Italiano sui 'dialetti' è concepita
- come già accennato - come un puntello di un sistema politico centralista
(insieme alla retorica su Risorgimento). Di fatto, però, l'esigenza di
radicamento territoriale, di recupero di radici nel campo dell'alimentazione,
della lingua, dei costumi è un fenomeno troppo potente per essere arrestato. Un
fenomeno che non significa 'chiusura', paura del mondo, difesa di micromondi.
E' pacifico che si debba e si possa muoversi su più piani (glocalismo)
Identità e
lingua locali sono legate da innumerevoli elementi: la toponomastica, le
denominazioni di piante, animali, per non parlare delle attività tradizionali
che nella loro variabilità implicano l'utilizzo di strumenti a volte peculiari
di un territorio o foggiati in modo peculiare, con elementi non presenti in
altri esempi della stessa tipologia utilizzati altrove. Quando l'italiano è
stato imposto come unica lingua nella scuola, negli usi ufficiali era una
lingua ancora poverissima di lessici collegati alla vita quotidiana, agli
attrezzi, al lavoro dei campi, agli animali domestici agli elementi della
morfologia del territorio. Ancora oggi nell'ambito dei prodotti alimentari
(basti pensare ai tagli di carne o alle denominazioni di tipi di paste
alimentari) l'unificazione linguistica non si è compiuta e gli italiani
regionali (cosa ben diversa dalle lingue locali anche se collegati a queste
ultime come in un sistema di vasi comunicanti), restano tutt'oggi ricchi
di geosinonimi in un continuo processo di convergenza e differenziazione
linguistica (per la buona pace dei parrucconi). Basti pensare alle stesse parti
del corpo umano che nell'Italiano regionale colloquiale restano profondamente
diverse (es. le tette, le zinne).
L'immissione a
forza di toscanismi nella lingua corrente ha sortito esiti che oggi, dopo
un più che secolare e spontaneo processo di prestiti dai vari 'dialetti'
ha - almeno in parte - colmato le più evidenti lacune dell'Italiano,
appaiono alquanto goffi e ridicoli, frutto di un opera pedissequa di
'calco' dal toscano.
Per rendersi conto di
quanto lacunoso fosse l'italiano anche nell'ambito delle attività tecniche
basta leggere trattati e manuali pre-unitari. Una buona parte del lessico è
identificabile come voci che sono proseguite sino ad oggi nei 'dialetti' e che,
fino allora, erano usate anche nella lingua scritta, tanto che si può mettere
in discussione che i vari 'italiani' scritti, tolta la letteratura e argomenti
di speculazione, fossero la stessa lingua. Come lingua utilizzabile in tutti
gli ambiti della vita sociale un 'Italiano' non esisteva (come non esisteva
lItalia e forse non è mai esistita).
La tabella sotto
riportata (da De Mauro) mette in evidenza come buona parte della popolazione
sino alla fatidica 'svolta' degli anni '60 sia rimasta esclusivamente
'dialettofona', spesso del tutto incapace di colloquiare in Italiano.
|
1861
|
1955
|
1988
|
1995
|
Italiano
|
1,5
|
10,0
|
38,0
|
44,4
|
Italiano /Dialetto
|
1,0
|
24,0
|
48,0
|
48,7
|
Dialetto
|
97,5
|
66,0
|
14,0
|
6,9
|
Totale
|
100,0
|
100,0
|
100,0
|
100,0
|
Da: Dialetto e italiano dal 1861 al 1995: percentuali d’uso sulla
popolazione (De Mauro, Dante, il gendarme e l’articolo 3 della
Costituzione, in Dante, il
gendarme e la bolletta.
La, comunicazione pubblica in Italia e la nuova bolletta Enel,
a cura di T. De Mauro e M. Vedovelli, Roma-Bari, 2001.
L'Italiano non ha avuto molto tempo per consolidarsi come lingua
viva. Molto meno in ogni caso rispetto alle altre grandi lingue europee.
Pensiamo al tedesco, che pure non avendo la spinta di una monarchia unitaria
alle spalle, ha avuto modo di diffondersi in un processo secolare
attraverso la stampa della Bibbia. Va considerato anche che la
scuola è risultata efficace per imprimere lo stigma della dialettofonia
consolidando e approfondendo i privilegi e le disparità sociali, ma
nella missione di 'fare gli italiani' attraverso l'unificazione
linguistica ha sostanzialmente fallito. Al difficile apprendimento
dell'Italiano (lingua straniera per le genti rurali) seguiva molto spesso
l'analfabetismo di ritorno e l'abbandono dell'uso dello stesso (semmai
usato in molto impacciato a rimarcare una condizione subalterna con piena
soddisfazione dei notabili liberali).
C'è voluto Mike
Buongiorno (metafora della televisione 'popolare') per generalizzare l'italofonia.
In ogni caso la tv, per quanto 'nazional-popolare' non tratta certi
aspetti della vita quotidiana. Di conseguenza, per tornare ad accostarsi
a certe dimensioni 'artigianali' del vivere, ad una ritrovata
dimensione locale, colta nella sua interezza, la lingua locale
diventa un medium indispensabile. Non basta far sopravvivere come
fossili qualche toponimo e qualche elemento del lessico dei 'prodotti tipici'
(estensivamente saccheggiati e rielaborati dal marketing del Mulino Bianco).
L'opera dell'escolo,
ma qui dobbiamo dire che tanti istituti scolastici 'comprensivi' sparsi per le
Alpi hanno fatto qualcosa di simile, è stata fondamentale per recuperare i
vari elementi di una lingua (vedi i fitonimi). Ha senso conservarli,
possibilmente nell'uso vivo dei parlanti anche in quanto una lingua con i
suoi elementi (e il lessico è uno dei fondamentali) rappresenta una forma
di adattamento ad una realtà fatta di interazione tra organizzazione umana e un
determinato ambiente fisico (il valore della diversità culturale come di quella
genetica sta proprio in questa capacità di adattamento alla variabilità nello
spazio e nel tempo).
Non c'è ecologia umana
senza mantenimento della diversità culturale e di quella linguistica che ne è
una parte così determinante.
Lingua, culture,
tradizioni locali come veicoli di integrazione e ricomposizione sociale
Nelle comunità alpine la valorizzazione della lingua locale è non
solo un modo di tornare a riconoscersi nella propria individualità e identità
di dare valore alla 'resistenza in quota' (restare in montagna senza entrare a
far parte di una cultura e contribuire a vitalizzarla e a perpetuarla ha un
significato infinitamente minore; si fa magari la 'manutenzione del territorio,
si contribuisce alla microeconomia, cose importantissime e indispensabili ma
senza appartenere all'anima di una comunità tornare, restare, andare a vivere
in montagna ha un significato molto depotenziato).
Vogliamo concludere
ribadendo che la difesa e la valorizzazione del patrimonio linguistico sono, al
contrario di quello che pensano e proclamano i parrucconi, degli strumenti di
integrazione. L'esperienza del Veneto, dove i processi di 'ridialettizzazione'
sono più evidenti che altrove, ci insegna che l'extracomunitario che parla
veneto può raggiungere un grado di integrazione molto maggiore di quello che
parla italiano, diventa più facilmente parte di un 'noi'. Questo meccanismo ha
molta più efficacia in piccole comunità dove la lingua locale è maggiormente a
rischio. Il particolarismo, tanto vituperato, diventa strumento di
integrazione, di comprensione, di scambio e apertura alla diversità. Che
tutto ciò rappresenti un modello più spontaneo ed efficace rispetto a
quelle forme di integrazione 'civiche', 'nazionalitarie', 'fredde', alla
francese, crediamo non lo si possa mettere in dubbio (se non da chi, in
perfetta cattiva fede, pensa che i dialetti portino alle fosse comuni).
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